martedì 27 marzo 2018

I danni degli «anti-sette»»: la verità sugli «Angeli di Sodoma»

In precedenza abbiamo denunciato l’operato degli «anti-sette» nel triste, clamoroso e deleterio caso giudiziario degli inesistenti «Angeli di Sodoma».

Un’inchiesta penale, scatenatasi con titoloni sensazionalistici come «Riti sui bambini, blitz polizia a Pescara» (ADN Kronos, 15 ottobre 2002), «Bambini drogati e violentati per riti satanici / I ragazzini venivano adescati a scuola e in spiaggia» (Corriere della Sera, 15 ottobre 2002), «Pedofili e satanisti, quattro arresti / Cannibalismo e scarnificazione i loro riti prevedevano la morte» (Repubblica, 16 ottobre 2002), «Gli «angeli di Sodoma» forse preparavano il sacrificio di un bimbo» (Il Tirreno, 16 ottobre 2002), «Riti satanici e droghe giovani adescati nei locali» (Repubblica, 18 febbraio 2003); addirittura il comunicato della Polizia di Stato il 15 ottobre 2002 recitava «Riti satanici: bimbi violentati e drogati, 4 arresti della Polizia di Stato di Pescara».

Quegli articoli scandalistici sono poi finiti per fare da foraggio a libri di testo sul «satanismo», non solo come «Le mani occulte» (2005) dello stesso don Aldo Buonaiuto (diretto responsabile di quel sopruso), ma anche «L’abisso del sé – satanismo e sette sataniche» (2011), «L'Indagine Investigativa - Manuale Teorico-Pratico» (2015), «Satanismo, sette religiose e manipolazione mentale» (2015), «Criminologia Esoterica» (2016), e si potrebbe continuare.

Ultima ma non meno importante, addirittura una proposta di legge (la nr. 3770 del marzo 2003 a firma di Roberto Alboni (agente di commercio, diplomato, al tempo in forza ad Alleanza Nazionale) citò ad esempio il «caso» degli «Angeli di Sodoma», con parole inquietanti come queste:

«Basti ricordare la raccapricciante scoperta avvenuta lo scorso 16 ottobre ad opera della polizia di Pescara di reati efferati compiuti dalla setta "angeli di Sodoma". In questo antro degli orrori in cui si consumavano messe nere e riti satanici, venivano perpetrate nei confronti di minori, spesso prelevati fuori dalle scuole e ridotti in schiavitù con l'impiego di sostanze stupefacenti, violenze di ogni tipo, comprese quelle sessuali. Si predicava un odio sviscerato nei confronti dei bambini e la necessità della loro purificazione attraverso atti di vampirismo umano, capaci di "purificarli".»

Sbalorditi da come un simile caso di «fake news» possa essere diventato niente meno che un elemento tanto «importante» da sostanziare un progetto di legge parlamentare, abbiamo ripreso in mano l’argomento.

Ci siamo interessati ulteriormente a questo caso e abbiamo raccolto informazioni più dettagliate sulle ragioni che hanno portato a un caso tanto clamoroso di ingiustizia di matrice «anti-sette» ai danni di un gruppo di ragazzi abruzzesi finiti nel mirino di don Aldo Buonaiuto e di quella che in seguito sembra essere diventata la «polizia religiosa» della Repubblica Italiana… uno stato laico per natura (sic!).

Qui di seguito relazioniamo ciò che abbiamo scoperto: per rispetto di chi è stato rovinato dalla macchina del fango «anti-sette» e dal conseguente tritacarne giudiziario, non citeremo nomi in chiaro né espliciteremo le fonti; tuttavia, il materiale (la parte non di pubblico dominio) è disponibile e viene custodito da un professionista di fiducia.



Chi erano i componenti della «setta degli Angeli di Sodoma»

Il principale indiziato è G.C., un pescarese che all’età di trentun anni si ritrova sbattuto sulle prime pagine dei giornali come «mostro» di turno, per la fantomatica vicenda degli «Angeli di Sodoma»: è l’ottobre del 2002.

Vicenda che, tuttavia, si riferisce a fatti che risalgono a un arco di tempo fra il 1996 e il 1998, ovvero quattro/cinque anni prima. In quel periodo, G.C. viveva appunto a Pescara, sua città natale.

Ventisettenne, i genitori deceduti prematuramente, una sorella trasferita in un’altra città per motivi di studio, il giovane G.C. era rimasto da solo in un ampio appartamento arredato; in breve tempo la sua casa divenne luogo di incontro della sua compagnia di amici, tutti amanti della musica rock e dell’arte figurativa. Fra l’altro, G.C. componeva poesie e questo dettaglio è tutt’altro che superfluo, come si capirà in seguito.


L’inchiesta della magistratura accertò la presenza di stupefacenti

Forse si potrebbe definirli errori di gioventù, i più intransigenti li classificheranno come comportamenti riprensibili da sanzionare in nome della legge.

Di fatto, in occasione di qualche compleanno ogni tanto gli amici di quella compagnia pescarese consumavano tutti insieme piccole quantità di droga: un po’ di fumo, qualche «striscia» di coca, qualche pasticca… si parla di piccole quantità che i giovani goliardi acquistavano in gruppo mettendoci un po’ di soldi ciascuno.

Si parla senz’altro di serate o feste un po’ «trasgressive», ma va detto che saranno state in tutto non più di una decina nell’arco di un paio d’anni e non vi è prova alcuna che sia mai accaduto nulla di veramente grave; tant’è che nemmeno in sede giudiziaria è stato accertato alcun fatto criminoso degno di nota, con l’unica eccezione che tratteremo più avanti.

In seguito (seconda metà del 1998) G.C., proprietario di quell’abitazione, si trasferisce in un’altra città per seguire un corso di sceneggiatura: i contatti fra i componenti di quella compagnia si diradano progressivamente fino ad esaurirsi.

Ecco dunque che quei divertimenti «sopra le righe» si concludono nel corso dell’anno 1998: l’ampio appartamento arredato non era più a disposizione e ognuno di quegli amici aveva scelto una propria strada.

È solo in seguito che parte l’inchiesta della magistratura, quando oramai quelle situazioni appartenevano già al passato.

I media parlarono di stupefacenti con titoli ad effetto, sicché tutti chiaramente pensarono allo spaccio, ma non fu così nemmeno in termini processuali: G.C. venne infatti condannato per «cessione di stupefacenti» che è ben diversa dallo «spaccio», anche perché non prevede un fine lucrativo.

Ma non solo: il fascicolo giudiziario dimostra che durante le varie perquisizioni a carico degli indagati non fu mai trovato nemmeno un singolo spinello; fatto, questo, che si può leggere come una conferma della tesi difensiva del «consumo di gruppo», ben lontano dalla «cessione» e ancor più dallo «spaccio». Tanto che l'avvocato di G.C. ebbe a commentare, ironizzando, che s'era trattato di un caso di «droga parlata».


L’intervento della magistratura e la «perizia» di don Aldo Buonaiuto: cherchez la femme!

Scavando nei ricordi di chi quella vicenda l’ha vissuta, si scopre che la denuncia da cui è partito tutto venne sporta da una ragazza che frequentava regolarmente quella casa nel periodo dei divertimenti «sopra le righe».

Una ragazza con cui almeno due frequentatori stabili di quella compagnia avevano avuto brevi relazioni che s'erano concluse in modo un po’ burrascoso.

Ed ecco svelato il «segreto di Pulcinella»: tutta la storia degli (inesistenti) «Angeli di Sodoma» deriva proprio da quella denuncia, una vendetta tardiva di una giovane donna respinta, che decide di trascinare in tribunale due suoi ex amanti quando le frequentazioni erano oramai interrotte già da un paio d’anni.

Persino l’idea, del tutto indiziaria, che si trattasse di una «setta» (come riportato nella «perizia» di don Aldo Buonaiuto) proviene da una raccolta di poesie che G.C. stava scrivendo ed era contenuta in una cartellina che gli fu sequestrata dagli inquirenti.

Di fatto, non è mai esistito alcun gruppo organizzato denominato «Angeli di Sodoma», nemmeno tacitamente.


La condanna penale per droga

Nel corso del processo, l’avvocato degli imputati (e in particolare di G.C., il principale accusato) ha sostenuto in tutti i gradi di giudizio la tesi secondo cui non solo non esisteva alcuno spaccio, ma nemmeno la «cessione di stupefacenti» dal momento che vi era stato caso mai un «consumo di gruppo» che, se moralmente può essere discutibile, sotto il profilo legale però non è illecito.

A quanto si capisce, però, la polizia aveva messo sotto torchio tutti i frequentatori di quella casa e tutti coloro che potevano avere qualcosa da riferire al riguardo, e – come è facilmente comprensibile – alcuni di loro, per trarsi d’impaccio senza conseguenze fornirono delle versioni «compatibili» con l’indagine in corso e utili per confermare che la droga la forniva G.C. gratuitamente. Un fatto che, di per sé, probabilmente oggigiorno non sarebbe nemmeno più sanzionabile in sede penale, ma che secondo le leggi allora in vigore condusse ad una condanna per «cessione di stupefacenti» per la quale in primo grado venne comminato il massimo della pena (6 anni + 1).


La perizia di don Aldo Buonaiuto era basata sul nulla?

Nel nostro blog abbiamo più volte sottolineato su che genere di «notizie» spesso si fondano le dichiarazioni degli anti-sette.

In realtà qualche elemento utile a sostenere la tesi di don Aldo Buonaiuto (prete cattolico arbitrariamente nominato consulente del Ministero dell’Interno) esisteva: nel corso delle indagini venne raccolto un vecchissimo teschio umano. Dalla nostra piccola indagine abbiamo scoperto che quel teschio era stato regalato a G.C. da alcuni amici che l’avevano trovato in un vecchio cimitero ormai in disuso e in completa rovina, in un paesino nei dintorni di Pescara (stando a chi vide quel camposanto, le tombe erano usurate dal tempo e le ossa addirittura affioravano dal terreno). Insomma, un regalo un po’ particolare per una persona con dei gusti (per così dire) atipici. D’altronde, secondo un antico adagio, «sui gusti non si discute».

Ma grazie alla «perizia» di don Buonaiuto e al clima di terrore generato dai media, quei semplici gusti divennero illeciti e si trasformarono in una condanna per «profanazione di tomba» e «sottrazione di parti di cadavere» (altri due anni con i quali si arriva al totale dei nove anni della sentenza di primo grado). Reati che, protestò G.C., egli non aveva mai commesso e per i quali l’unica «prova» fu quel teschio ricevuto in regalo.

Se è un crimine essere attratti dall’immaginario gotico, dall’horror e dall’occulto, ci si lasci dire che persone come Stephen King dovrebbero essere condannate all’ergastolo!


Produzione e diffusione di materiale pedopornografico

Anche di questo furono accusati gli «Angeli di Sodoma», ma pure qui c’è una verità molto semplice e lineare.

In quella compagnia di amicizie uno degli interessi condivisi era la fotografia, nelle sue diverse declinazioni fra le quali una certa passione era dedicata al nudo artistico. Si pensi al fatto che quei ragazzi erano sì adulti ma ancora piuttosto giovani, dunque l’approccio alla materia era sicuramente amatoriale. Amici e amiche che dunque di quando in quando posavano per fotografie che senz’altro un prete non può che condannare come «oscene»; se poi si tratta di don Aldo Buonaiuto, la cui intransigenza si traduce in feroce intolleranza, meglio si comprende come si è arrivati ad un’accusa tanto pesante.

Tuttavia, con grande scorno dei giustizialisti «anti-sette», semplicemente non c’era materiale pedopornografico nemmeno a cercarlo col lanternino, infatti quelle accuse caddero completamente nel vuoto già in primo grado per assoluta insussistenza del presunto fatto criminoso.

Ma intanto le accuse erano state formulate e sui media si erano letti titoli pruriginosi come «Riti satanici – giovani adescati nei locali» (Repubblica, 18 Febbraio 2003).


Allarmismo infondato e interpretazioni strumentali

In fin dei conti, quell’allarmismo risultò completamente infondato: la «setta», il «cannibalismo» e le «orge con adolescenti» furono fantasie senza costrutto. Tuttavia, certi titoli in cui si dava la notizia della pesante condanna di primo grado fecero pensare che ci fosse stato chissà quale narcotraffico.

Ma non solo: nella «perizia» di don Aldo Buonaiuto si parlava di un non meglio accertato «desiderio di uccidere un bambino» e di un appetito per la «carne di bambina cucinata». Non sono altro che un paio di frasi che vennero estrapolate dal proprio contesto e combinate con le intercettazioni telefoniche che furono fatte ai tempi, ricamate in modo artificioso da don Buonaiuto per avvalorare una presunta cattiveria nei confronti dei bambini. Anche in questo caso, prove concrete non ve n’erano: fu invece una macchinazione, e lo si comprende meglio leggendo le trascrizioni integrali (e ben diversamente comprensibili, se lette nella loro completezza).

Per esempio, in una di queste ci si imbatte nella seguente conversazione telefonica tra G.C. e l’amico G.D.C. – descritto, ai tempi, come il «braccio destro», si noti la terminologia che fu adoperata; si trattava semplicemente di due amici, ma li vollero dipingere come una specie di banda di delinquenti prima ancora che venissero processati. La scena si svolge in Giugno, G.D.C. stava a Catania e chiamava dalla spiaggia:

- G.D.C.: “Gia’, non ci crederai, sta passando un bambino ciccione bruttissimo tutto vestito di jeans. Cappellino di jeans, camicia di jeans, pantaloni di jeans e pure le scarpe di jeans.”

G.C.“Inguardabile! Da sparargli a vista!”

È ovviamente una battuta, tutt’al più un’uscita infelice se proprio si fosse costretti a commentarla, eppure è diventata la dimostrazione che vi era un sotteso «desiderio di uccidere un bambino», secondo la relazione del solerte don Aldo Buonaiuto. Eppure qualunque persona con un briciolo di raziocinio si renderebbe conto che si è trattato di una semplice, estemporanea boutade telefonica tra due amici e non dell’espressione di una volontà omicida.

Situazione simile per la faccenda del «cannibalismo»: furono stralci di conversazioni interpretate in modo tendenzioso.


Condanna ridotta, ma nel silenzio generale

Nel secondo grado di giudizio, la pena venne più che dimezzata. Ma ben si guardarono i giornali e le TV dal diffondere la notizia tanto quanto avevano strombazzato i roboanti titoloni nel corso dell’inchiesta. Solo un trafiletto su un giornale locale, da tutti gli altri un «silenzio assordante».

Nel frattempo, gli indiziati avevano dovuto vivere un inferno: anche coloro (tutti tranne uno) che furono completamente assolti dovettero sottostare alla gogna mediatica.

La pena definitiva per G.C., sebbene in secondo grado fosse stata ridotta, alla fine fu di quattro anni e tre mesi. A questi andava sottratto un anno che, in sede di indagine, aveva già espiato tra carcere e domiciliari. In galera, in fin dei conti, solo per delle feste trasgressive fra amici in casa sua.

Sofferenze, fra l’altro, che non terminano quando si esce dal carcere o quando la pena è estinta: ci sono dei postumi, c’è la difficoltà di ricostruire una vita normale, senza nemmeno contare le perdite economiche e la flagellazione del proprio nome, intaccato da accuse tanto infamanti quanto fasulle.

Accuse scaturite da una «perizia» commissionata (con soldi pubblici!) a don Aldo Buonaiuto, una sorta di «prete inquisitore» del terzo millennio che vorrebbe mandare al rogo tutti i seguaci di realtà religiose diverse dalla sua, quasi si fosse tornati nel tredicesimo secolo.

Se lo scandalo c’è, allora è quello dei gruppi «anti-sette» che continuano a cercare di costruire «casi» pompando delle notizie più o meno veritiere per invocare la reintroduzione del reato fascista di plagio.

Sebbene i fatti del recentissimo periodo non sembrino auspicare alcunché di buono, nondimeno ci auguriamo che un domani non troppo lontano questi soprusi possano cessare e la Repubblica Italiana torni ad essere il «libero Stato» in cui ognuno ha il diritto di avere i propri gusti e le proprie passioni, senza dover temere la perniciosa, inquisitoria persecuzione dei faccendieri «anti-sette».

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